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Marco Bentivogli: “Il sindacato ha rovinato l’Italia”?

5 minuti di lettura
28 Settembre 2017 Stampa

Ha affrontato alcune delle vertenze sindacali più difficili degli ultimi anni; dalla Alcoa alla Lucchini, dall'Ilva alla Whirlpool-Indesit, fino al bollente caso Fca. Nonostante questo e numerose trasferte in giro per l'Italia (o forse anche per questo) Marco Bentivogli, segretario generale FIM-CISL, ha trovato il tempo per scrivere un libro, "Abbiamo rovinato l'Italia?" (ed. Castelvecchi) che è divenuto un caso editoriale ed oggi è alla seconda ristampa.
caso che si fonda anche e soprattutto su una provocazione, il sindacato ha davvero rovinato il paese? Lo abbiamo chiesto proprio al suo autore. 

Segretario Bentivogli, partiamo dal suo libro e dal titolo:"Abbiamo rovinato l'Italia?" (edizione Castelvecchi). A chi fa riferimento?
«E’ una domanda retorica che ho usato per aprire una discussione sul sindacato e i corpi intermedi, necessaria da anni. E’ anche una risposta al "luogocomunismo" italiano, alle chiacchiere da bar sulla nostra funzione storica. E a chi beneficia dei nostri risultati ma poi generalizza mettendo nello stesso calderone tutto e tutti, con il risultato di disporre sullo stesso piano i virtuosi con i guastatori».

Eppure il sindacato – e nel libro non manca di sottolinearlo – ha tentato di rinnovarsi. Ad esempio con l'idea avanzata nel 1996 dalla CISL di costituire, insieme a CGIL e UIL, un unico sindacato.
ancora attuali le differenze che vi tengono divisi?

«No. Anche se siamo molto diversi, le ragioni storiche che portarono alle nostre divisioni non sono più attuali. Certo ci sono modelli sindacali spesso inconciliabili, ma se il nostro obiettivo è la partecipazione bisogna essere consapevoli che essa viene praticata laddove c’è un solo sindacato o al massimo due. Inoltre la proliferazione delle sigle sindacali degrada verso il corporativismo le rivendicazioni sindacali. Il nodo è che in Italia, non funzionando il principio di maggioranza nella vita associativa (ci si misura e ciò che decide la maggioranza vincola anche la minoranza che va garantita e non epurata), le idee diverse faticano a convivere nella stessa organizzazione. L’esempio è il Pd, dove la dialettica interna dà luogo a marginalizzazioni e scissioni. Serve una soglia di sbarramento, ben superiore al 5%, nel Paese. La dittatura delle minoranze in alcuni ambiti è uno strazio».

Lei critica il Jobs Act, la riforma del lavoro voluta dal governo Renzi, perché ha favorito nel breve le imprese, penalizzando aspetti premianti sul lungo periodo come l'apprendistato e la formazione. È così?
«Il Jobs Act ha anche molti meriti. Diffido da chi lo considera la causa o la panacea di tutti i mali. Di certo senza interventi strutturali le speculazioni, gli abusi, sono più frequenti e la solidità degli effetti meno consistente. C’è troppa enfasi sulle “riforme del lavoro”, sul mercato del lavoro e meno attenzione sui veri nodi di competitività del sistema. Faccio una provocazione: una riforma per una giustizia giusta con tempi certi e che superi la “certezza del contenzioso” e non del diritto e delle sue sanzioni, produrrebbe tanti posti di lavoro; le liberalizzazioni idem. Ecco, servirebbero politici meno ossessionati di passare alla storia».

Una parte del suo libro è dedicata alla fabbrica intelligente e alle innovazioni portate da Industria 4.0 nel mondo del lavoro. Mi può indicare le priorità che imprese, lavoratori e sindacato devono darsi per affrontare questo cambiamento?
«Per un sindacalista è difficile spiegare ai lavoratori che la formazione lungo tutta la vita lavorativa è il diritto più importante. In un mercato del lavoro in cui si cambieranno con molta probabilità mediamente sette imprese durante la vita lavorativa, senza formazione di qualità c’è solo la disoccupazione o la precarietà occupazionale e salariale all’orizzonte. Per questo la conquista più grande del contratto nazionale dei metalmeccanici è il diritto soggettivo alla formazione. Specie in un paese che spende poco e male (la metà dei soldi della Germania) su questo capitolo. C’è poi il problema delle infrastrutture: il gap di connettività del Paese è ancora troppo ampio rispetto al resto dell’Europa. La fabbrica intelligente non può esistere dove non c’è la banda ultralarga.

In questo senso la contrattazione di secondo livello e gli accordi territoriali possono rivelarsi alleati di imprese e lavoratori?
«C’è un problema di produttività delle piccole imprese, bisogna fare massa critica sul terreno dell’innovazione. La contrattazione territoriale può essere una sfida per costruire la crescita, dividerne i risultati e porre questioni comuni alle istituzioni. Da soli non ce la faremo, insieme cambieremo le cose. Certo bisogna superare l’idea che sia un contratto aziendale dilatato nel territorio. I Contratti veri nascono da esigenze comuni, dal basso, unificanti».  

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