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Sei storie culinarie dal nostro territorio

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9 Gennaio 2018 Stampa

Un territorio vive anche delle sue tradizione culinaria, soprattutto se capace di attrarre turismo. È così per l'Emilia Romagna e nel nostro caso per la provincia di Modena, culla di grandi cibi e storie straordinarie.  

In vista dell'evento "La tradizione enogastronomica e le eccellenze agroalimentari come driver del turismo locale", in programma mercoledì 17 gennaio (ore 18.00) in sede centrale Lapam a Modena, vi raccontiamo alcune di queste storie, raccolte nella Carta enogastronomica realizzata da Iacopo Cassigoli insieme a Lapam, che verrà presentata durante l'iniziativa. Un utile strumento che " con i suoi itinerari organizzati, offre l'opportunità di scoprire con uno sguardo non consueto, le prelibatezze tipiche direttamente presso alcune tra le più rilevanti aziende del settore agroalimentare del Consorzio Selezione Modena "

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La mucca e il Re millenario: il Parmigiano Reggiano

Il formaggio dei benedettini
prime testimonianze storiche sul Parmigiano, chiamato anche “Grana” per la sua tipica “granulosità”, risalgono al XIII secolo. Il formaggio era prodotto nelle grancie delle abbazie benedettine di Val Padana, vere e proprie aziende agricole medievali, che in tal modo riuscivano a conservare per l'inverno il latte fornito in abbondanza dalle mucche durante i mesi estivi del pascolo. Ai benedettini, fin dall'età longobarda, spettò infatti la straordinaria opera di irreggimentazione delle acque per mezzo di argini, e la bonifica dei terreni paludosi per essere consegnati al pascolo bovino. Terre che erano situate lungo l'asta fluviale del Po, da Bobbio a Pomposa, e specialmente a nord della Via Emilia, nella media valle dell'Enza, comprese tra le provincie di Reggio e Parma, costituendo l'area di origine del futuro Parmigiano-Reggiano. Si deve in specie ai monaci dell'abbazia di San Prospero di Reggio la messa a punto e lo sviluppo della tecnica di lavorazione del Parmigiano.

A Modena la produzione faceva capo al monastero di San Pietro e alla potente abbazia di Nonantola. Attraverso la fitta rete di vie d'acqua che caratterizzarono la Val Padana fino ai primi decenni del Novecento, dalle miniere di Salsomaggiore perveniva alle grancie il sale necessario al processo caseario. La salatura consentendo la conservazione del formaggio, rese inoltre possibile, come risulta almeno dal Trecento, anche una sua prima diffusione lungo la penisola e in Europa. Per la presenza di mercanti toscani sulle principali piazze commerciali padane, il Parmigiano lo ritroviamo in specie a Pisa e a Firenze. Nel Quattrocento ritroviamo l'ormai celebre formaggio come pietanza e prezioso ingrediente sulle più raffinate tavole nobiliari del tempo, in occasione di convivi nuziali e feste per ospiti illustri. Ne faranno uso celebri cuochi come Maestro Martino da Como, autore del trattato De Arte Coquinaria, e Simone Prudenziani da Orvieto. Per Bartolomeo Sacchi, Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana che divulgò le ricette di Maestro Martino trascrivendole nel De Honesta Voluptade, i migliori formaggi erano il “marzolino” toscano, fatto con latte di pecora, e il Parmigiano padano. Nel Cinquecento si interessarono all'attività casearia anche gli Este, duchi di Ferrara e poi di Modena, e i Farnese, duchi di Parma, e con loro anche i marchesi Sanvitale di Fontanellato e i Gonzaga di Novellara.

Una data importante, il 1612
È questo l'anno in cui i commercianti di formaggio di Parma e il Tesoriere della Camera Ducale con atto nortarile ufficializzarono l'uso di chiamare il formaggio di “grana” prodotto a Parma col nome di “Parmigiano”. Questo è dunque il primo documento ufficiale che tutela l'origine del prelibato formaggio.

Il Consorzio
corso del Novecento le latterie sociali, alcune delle quali nate già sul finire del secolo precedente, cominciarono a cooperare e a consorziarsi. Nel 1928 nasce il primo Consorzio Volontario Produttori Formaggio Grana Reggiano, cui faceva segito nel 1934 la nascita del Consorzio Volontario Interprovinciale Grana Tipico, che comprendeva le province di Parma, Reggio, Modena e Mantova alla destra idrica del Po, ovvero l'Oltrepo Mantovano. Nel 1938 si ha la ufficializzazione del nome “Parmigiano-Reggiano” e, infine, con la legge del 10 aprile 1954 si stabilisce il suo territorio di origine comprendente le province di Parma, Reggio, Modena, l'Oltrepo Mantovano e parte della provincia di Bologna alla sinistra idrica del Reno. Al 1964 risale la marchiatura attualmente in uso.

 

Al Nimàl

"Pèr la sant'Epifanìa, se al nimél al 'n è mìa mòrt, l'è in agonìa".

La lavorazione della carne suina era già praticata al tempo degli Etruschi e dei Galli Cisalpini stanziati tra il Po e l'Appennino, poiché la Val Padana, come continuò ad essere ancora sotto i Longobardi, anch'essi allevatori di maiali, e in epoca medievale, era quasi interamente ricoperta da folti boschi di quercie, dove il porco veniva allevato brado. Nel De Agri Coltura, codificando un uso ormai consolidato, Catone ci documenta sul modo di salare la coscia del maiale, che era sacro a Maia, dea romana della fecondità (da cui trarrebbe il nome), la cui pratica passerà anche a definire il Prosciutto: per-exuctus, ovvero, “prosciugato”.

La carne di maiale si lavorava tradizionalmente sempre d'inverno, per ovvie ragioni igieniche legate alla rigidità del clima. Il nimàl si ammazzava pertanto alla fine dell'anno, nell'arco dei suoi mesi più freddi, tra dicembre e gennaio: pèr sant'Andréa, si diceva, ciapa al pòrc per la sea, e s'te n'al vò ciaper, lassl' ander fin a Nadêl. Il 30 novembre, per sant'Andrea, iniziava quindi il periodo adatto per macellare, tempo che poteva essere rinviato fin sotto Natale. Un altro detto stabiliva il momento della macellazione tra il 13 dicembre e Natale: da santa Luzìa a Nadêl, al vilàn al masa al maièl. Oppure, subito dopo Natale, si compiva quello che era un vero e proprio rito nel giorno di san Tommaso, il 29 dicembre: pèr San Tomée, ciàpa al pòrc pèr i pé. E se per l'Epifania il maiale non ancora morto era certamente “in agonia”, per sant'Antonio, Sant'Antònni dal pòrc, il rito era senz'altro compiuto, poiché il 17 gennaio rappresentava la data ultima per la sua macellazione.

Il maiale a Modena
ha il suo tradizionale primato nella lavorazione degli insaccati, tra i quali spicca, in quelli da cuocere, lo Zampone,

piatto d'obbligo a Natale assieme ai Tortellini in brodo, una delle “glorie” cittadine, assieme al Lambrusco e alla Ghirlandina. Un primato storico già magnificato da Alessandro Tassoni, che nella Secchia Rapita la definì «città della salsiccia fina». Specialità modenese è anche la Coppa di testa, impasto di lingua e parti magre della testa del maiale, macinato, cotto con spezie e aromi, quindi insaccato a caldo in un budello o nel tipico sacco di juta. Dalla lavorazione del maiale si ricavava un ingrediente fondamentale della cucina emiliana, lo Strutto, impiegato per preparare molte pietanze e nella frittura dello Gnocco, il “pane” della Bassa, impasto di farina poco raffinata, acqua e sale, oggi accompagnato da salumi vari, quando solitamente si consumava con un frutto o del formaggio, poiché affettati e insaccati erano prelibatezze festive. Con il Lardo invece, salato e stagionato con erbe aromatiche, si condiscono ancora oggi il Borlengo e le Crescentine, tipici dell'Appennino. Se il Borlengo è una “colla” liquida cotta in una padella di rame, le Crescentine, come lo Gnocco, sono azzime, e crescono, da qui il nome, soltanto con il calore della cottura che avviene impilandole fra dischi roventi di pietra refrattaria detti Tigelle.

Lo Gnocco si usava friggerlo quando si ammazzava il maiale, le cui frattaglie fresche cucinate costituivano in quell'occasione il companatico. Il “rito” di ammazzare il maiale era compiuto dal Norcino, figura professionale “girovaga”, che spostandosi di aia in aia dirisse la macellazione, salatura e insaccatura delle carni suine fino al secondo dopoguerra, quando la sua sapienza confluì nella moderna industria salumiera. La Pancetta stesa o arrotolata è ancora oggi un esempio di quella antica arte. Per l'annuale “festa” che si faceva al maiale, durante la lavorazione dei vari tagli, si cuocevano gli scarti per fare i Ciccioli. È questa l'origine “povera” (perchè come dice una massima toscana “del maiale non si butta via nulla”) di un tipico prodotto emiliano, oggi composto invece di rifilature di carne scelta (pancetta e gola) che vengono bollite, aromatizzate e pressate dentro tele, assumendo così la caratteristica forma del Cicciolo, da affettare per accompagnare gnocchi o crescentine. Anche le Greppole si ottengono oggi dalle parti selezionate del suino, che mantengono sempre la specifica friabilità dei Ciccioli croccanti.  

 

Il trionfo di Bacco: il Lambrusco

"La sera, fuochi d'artifizio, illuminazione per la terra e pei colli, accademia vocale e strumentale al teatro, e ballo. Gli storici se ne tornarono a Modena alle ore otto: io rimasi a vedere ballare le signore, e rimasi anche per amore di un certo lambrusco".

Giosuè Carducci

Il nome del più famoso vino d'Italia deriva dalla vite labrusca, già coltivata dagli etruschi e dai romani. Di essa scrissero infatti Catone nel De Agri Coltura, Varrone nel De Rustica e Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, venendo citato per le sue tipicità anche da Columella, Virgilio, e Dioscoride. Nel Seicento sarà il bolognese Vincenzo Tanara a esaltarne il carattere ne "L'economia del cittadino in villa": «Il brusco ha moderato calore, s'usa ne' gran caldi, perchè estingue la sete, e restringe i porri; e buono per flussi, e massime il nero, tempra il fegato infiammato, ogni volta che non sia troppo gagliardo, stagna il vomito, ma vuole buon stomaco, però si comenda per giovini e contadini».

Tuttavia il vino di cui si legge nel trattato del Tanara non è certo da paragonare a quello oggi conosciuto in tutto il mondo, mancando all'epoca l'impiego del tappo di sughero, entrato in uso verso la fine del Settecento, che permise di mantenere intatta l'anidride carbonica prodotta dalla fermentazione e di avviare anche una commercializzazione su vasta scala. Sarà nel 1867 l'agronomo Francesco Aggazzotti a proporre la suddivisione dei vitigni autoctoni coltivati nel Modenese nelle tre tipologie oggi note: il lambrusco di Sorbara o della viola, per via delle sfumature del suo profumo, il lambrusco Salamino, originario di Carpi e il lambrusco dai Graspi Rossi, ovvero il Grasparossa di Castelvetro.

 

 

Il nettare degli Este: l'Aceto Balsamico di Modena

Le odierne fortune dell'Aceto Balsamico di Modena, la cui origine si perde nei secoli, si devono all'appassionata operosità della Consorteria
a Spilamberto nel 1967, dove ha sede anche il Museo del Balsamico Tradizionale, che ha permesso a tale antichissima prelibatezza di uscire dall'esclusivo circolo di quelle famiglie modenesi, nobili e borghesi, alle quali toccò in sorte la fortuna di tramandarsi in eredità un barilotto di quel prezioso nettare. Prodotto nei territori degli antichi domini estensi, esso è ottenuto da mosto d’uva cotto e maturato per lenta acetificazione, sottoposto quindi a graduale concentrazione attraverso una lunghissima, addirittura secolare, stagionatura, cadenzata dal ciclico “rito” del travaso in botticelle di legni e dimensioni differenti.

Sebbene il termine “balsamico” si incontri nei registri delle cantine degli Este per la prima volta nel 1747, utilizzato per indicare la peculiare qualità di uno tra i numerosi tipi di aceto che vi erano conservati, è probabile che la più antica testimonianza sull'Aceto Balsamico sia da rintracciare nella Vita Mathildis del monaco Donizone, la biografia di Matilde di Canossa: «l'anno 1046 scese il nuovo re Enrico in Italia, ove fu poi incoronato imperatore. Giunto a Piacenza, spedì al marchese Bonifacio», padre della Grancontessa, «che gli significasse la brama che egli avea di gustar dell'aceto che avea udito farsi perfettissimo in Canossa: appena ebbe il marchese udito il desiderio di Enrico, comandò che si fabbricassero subito una botticella, due buoi, un giogo ed un carro d'argento, e posto tutto su un carro trainato da due buoi vivi, il fe' condurre innanzi all'Imperatore, il quale ne rimase altamente ammirato e sorpreso».

 

 

 

Il Tortellino, dalla tradizione delle rezdôre a Pellegrino Artusi

La pasta ripiena, di cui si ha notizia scritta della sua esistenza fin dal Trecento, veniva tradizionalmente preparata per le grandi occasioni. Il Turtlèin, Tortellino, diminutivo di tortello, a sua volta derivato da torta, era quindi una tra i piatti più importanti delle feste comandate e delle celebrazioni speciali come i matrimoni. Mediamente i tortellini si preparavano tre/quattro volte l'anno, per Natale e Pasqua, per l'Assunta (Ferragosto) e il santo patrono. Era la pietanza della socialità femminile, durante la preparazione della quale si trasmetteva il “sapere” dalle nonne e dalle madri alle bambine. Le storie, più o meno leggendarie, sull'origine del Tortellino sono numerose. La sua nascita è da sempre contesa tra Modena e Bologna, rientrando pertanto in quella lunghissima disputa che fin dall'età medievale vide fieramente opposte la città di san Geminiano e quella di san Petronio, che difatti militavano in campi avversi, essendo l'una ghibellina e l'altra guelfa.

Proprio su tale rivalità Alessandro Tassoni pubblicava nel 1630 l'eroicomico poema La Secchia rapita, ispirandosi a un fatto realmente accaduto nel 1325, quando i Bolognesi, fatta irruzione nel territorio nemico, vennero non soltanto respinti, ma anche inseguiti fin dentro le mura della loro città e sbeffeggiati dai Modenesi, che infatti sottrassero come trofeo una secchia di legno da un pozzo. Nell'Ottocento, ispirandosi al poema del Tassoni, Giuseppe Ceri, architetto vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, vi aggiungeva del suo, scrivendo in un poemetto come Bacco, Marte e Venere, che parteggiavano per i Modenesi, scesi dall'Olimpo passarono la notte presso una locanda di Castelfranco. «E l'oste», scrive il Ceri, «ch'era guercio e bolognese», ammaliato dalla dea che lui sorprese nuda, «imitando di Venere il bellico / l'arte di fare il tortellino apprese!», imitandone dunque la forma in quella celebre pasta ripena. E che la locanda del tortellino “galeotto” fosse non a caso a Castelfranco, anticipava la fine di una querelle durata secoli, stabilendo la nascita di quella prelibatezza proprio sull'antico confine tra le due città contendenti. Disputa che nel 1927 il passaggio di Castelfranco dalla Provincia di Bologna a quella di Modena campanilisticamente riaccese.

La lunga tradizione gastronomica del Tortellino venne poi codificata soltanto a fine Ottocento, dopo l'Unità d'Italia. A farlo sarà colui che unì gli italiani a tavola, Pellegrino Artusi, che nel suo “manuale”, senz'altro dispiacendo ai “Geminiani”, intitolò la ricetta n. 9 Tortellini alla bolognese.

 

L'albero del pane

Il castagno, l'albero del pane come ebbe a definirlo il poeta Giovanni Pascoli per la sua generosità, costituì per secoli la principale risorsa delle popolazioni appenniniche.
suoi “provvidenziali”
si ricavava infatti quella preziosa “farina dolce”, che rappresentò un vero e proprio sostituto della farina di grano, con la quale era uso cucinare una gran varietà di pietanze. A proposito del castagno ecco dunque cosa scrisse il Pascoli in un articolo del 1908 per un giornale italo-americano: «Il castagno è il nostro albero del pane. Ci andrebbe messo, in ogni castagno, una croce, come si fa agli alberi sacri, perchè nessuno li tocchi. Quest'albero benedetto è il vero benefattore del popolo, il quale fu conservato per lunghi secoli, sugli aspri monti senza strade e senza commercio e senza soccorsi, dal pan di legno, come dal vin di nugoli, cioè dal frutto del castagno e dall'acqua pura».

"Pure in questo tempo abbiam noi le castagne […] se bene ancora crude se ne mangi; ma i più cocendole, le arrostiscono, poste in una padella pertugiata sopra la vampa del fuoco, o sotto le calde ceneri e con sale e con pepe le mangiamo […] et elle richieggono il vino nuovo dolce. Se ne cuocono in acqua sola, e queste chiamansi lesse, le quali vengono più da fanciulli e dalla bassa plebe, che dagli uomini civili e maturi, mangiate".

Giacomo Castelvetro
racconto di tutte le radici, di tutte l'erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano, 1614

 

"Anche qui non posso frenarmi dal declamare contro la poca inclinazione che abbiamo noi Italiani all'industria. In alcune province d'Italia non si conosce per nulla la farina di castagne e credo che nessuno abbia mai tentato d'introdurne l'uso; eppure pel popolo, e per chi non ha paura della ventosità, è un alimento poco costoso, sano e nutriente".

Pellegrino Artusi

La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene edizione Landi, 1910

 

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