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Slow Food: “Impariamo a dare il giusto valore alle tradizioni. Raccontiamole”

3 minuti di lettura
11 Gennaio 2018 Stampa

In vista dell’evento “La tradizione enogastronomica e le eccellenze agroalimentari come driver del turismo locale“, in programma mercoledì 17 gennaio (ore 18.00) in sede centrale Lapam a Modena, abbiamo intervistato Antonio Cherchi, ex presidente di Slow Food Emilia Romagna e attuale dirigente di Slow Food Modena, per capire come i grandi prodotti della nostra tradizione enogastronomica sono un driver di successo per imprese e territorio.

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Signor Cherchi, per chi viene fuori da Modena e Reggio Emilia, quali sono i prodotti dell’enogastronomia che nell’immaginario collettivo caratterizzano queste due ​provinc​e? 
“Temo, ahimè, quelli che ricordano esplicitamente nel nome la loro origine e quelli più pubblicizzati: l’aceto balsamico di Modena, il parmigiano-reggiano, il lambrusco: gli altri prodotti più famosi, dai salumi cotti (cotechino, zampone etc.) alla sfoglia (tortellini, tagliatelle etc.) sono percepiti più come emiliani o al più bolognesi…”

Come si può stimolare la curiosità per la storia e la tradizione di un territorio – o perché n​o​ dell’azienda – da cui proviene un prodotto agroalimentare in un consumatore? 
“Attraverso l’informazione e la formazione, a partire dal territorio di origine, dove c’è troppa ignoranza sulle tradizioni gastronomiche, sull’agricoltura ed i prodotti”.

È un p​o’ azzardato dire che in campo enogastronomico il passaggio da tradizione a storia lo decreta il successo commerciale di un prodotto o di un marchio? Del resto​ senza un’azienda che porta avanti le tecniche di produzione, una tradizione rischia di svanire o di perdersi nei ricordi… 
“In negativo, sembrerebbe non azzardato, visto il ruolo pervasivo della pubblicità e della GDO nella distribuzione, cose che possono permettersi soprattutto aziende di una certa dimensione per cui un dterminato prodotto sempre più viene identificato con quello fabbricato con metodo industriale e con il marchio di quell’impresa. Ma mi rifiuto di utilizzare in campo gastronomico i termini tradizione e storia se non per raccontare saperi tramandati di generazione in generazione, un po’ oralmente ma, soprattutto, per imitazione dei comportamenti vivendo fianco a fianco persone di generazioni diverse nei campi, nelle stalle, nei laboratori, nei caselli, ai fornelli, fino al consumo familiare. Se non saremo capaci di coltivare questa eredità, di riappropriarcene usando ovviamente anche le tecnolgie attuali di trasmissione delle conoscenze (da internet, ai social etc.) non ci sarà nè memoria, nè tradizione, nè storia. Al massimo riuscite operazioni industriali e di marketing”.

Nel settore agroalimentare alcuni i principali ingredienti chiave del successo sono la qualità intrinseca del prodotto, la denominazione di origine e a indicazione geografica riconosciuti e la forza commerciale sul versante della promozione e distribuzione. Quali sono i consigli per una piccola azienda artigiana che vuole ritagliarsi uno spazio e differenziarsi dal gruppo? 
“Fare prodotti buonissimi e sani, di una superiore qualità che sia percepibile, che si rifanno nel modo più corretto alle tradizioni valorizzando i saperi tradizionali accanto alle tecnologie moderne, che siano ad impatto ambientale zero e quindi non solo biologici ma davvero sostenibili, ad esempio i rifiuti e gli scarti siano riciclati, sia curato il benessere animale,etc.  con un approccio etico anche nel rispetto della dignità del lavoro. Chiedere per questi prodotti la giusta remunerazione, raccontando bene quello che si è fatto e che bisogna saper dare il giusto valore al cibo: deve essere buono, pulito, giusto e sano”.

Leggi anche: Sei storie culinarie del nostro territorio

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